In Food

a cura dell’avv. Fabrizio Paratore, responsabile della Commissione FOOD ICC Italia

I consumatori e le imprese alimentari del settore Private Label che producono cibi Made in Italy rischiano di veder dichiarata inapplicabile la norma con cui è stato reintrodotto l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione e confezionamento in etichetta. Sembra, infatti, che il legislatore italiano, nell’emanare la relativa disposizione legislativa, abbia violato il Regolamento UE ed il Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea così da renderla inefficace. Ora, anche l’industria di marca e la GDO si domandano se la corsa all’adeguamento al D.Lgs. 145/2017 dei primi mesi dell’anno fosse pienamente giustificata.

Le imprese del settore agro-alimentare italiano si sono dovute conformare, dallo scorso 5 aprile 2018, alle prescrizioni contenute nel Decreto Legislativo n. 145 del 15 settembre 2017 (il “D.Lgs. 145/17”) sulla necessaria indicazione, tra le informazioni presenti sull’etichetta dei prodotti alimentari, dello stabilimento di produzione o, se diverso, di confezionamento.

L’intento del legislatore italiano può sicuramente ritenersi lodevole in quanto diretto a consentire ai consumatori di conoscere i luoghi in cui si è, da ultimo, intervenuti sulle derrate (producendole o confezionandole) prima della commercializzazione. Particolarmente avvantaggiate ne risultano anche le imprese industriali alimentari italiane del settore Private Label, ossia le aziende che producono alimenti Made in Italy per conto e sotto marchio di terzi, ma che, spesso, non venivano nemmeno citate nelle etichette dei prodotti di marca perché il Regolamento UE di riferimento n. 1169/2011 (il “Regolamento”) non prevede tale obbligo.

Altra utilità dichiarata dal legislatore è quella di agevolare il compito degli organi ispettivi nella individuazione degli operatori responsabili di eventuali violazioni compiute in Italia, operatori che possono – oltretutto – soltanto essere italiani perché le norme interne non hanno forza vincolante sui territori stranieri.

Tuttavia, la norma, che non suona nuova ai nostri operatori del settore, non sembra essere stata adottata nel rispetto delle inderogabili disposizioni legislative europee in materia e potrebbe quindi risultare inapplicabile.

L’obbligo informativo in esame era, per vero, già previsto dall’articolo 3 del D.Lgs. 109/1992, il quale ha però dovuto cedere il passo all’entrata in vigore del Regolamento efficace a decorrere dal 13 dicembre 2014. L’adozione di un regolamento recante misure di armonizzazione comporta, infatti, che le difformi leggi interne degli Stati membri debbano considerarsi inapplicabili in ossequio al diritto comunitario (si parla impropriamente di abrogazione implicita).

D’altro canto, il legislatore italiano ha ritenuto doveroso – con la Legge n. 170 del 12 agosto 2016 “Legge di delegazione europea 2015”– non soltanto procedere alla abrogazione esplicita delle vecchie disposizioni incompatibili, ma, di converso, reintrodurre il dovere informativo circa il luogo di lavorazione che la disciplina europea ora permette, ai singoli operatori, di inserire soltanto su base volontaria. Ma il provvedimento di attuazione della delega, D.Lgs. 145/2017, così come la stessa legge delega, non hanno tenuto in debita considerazione i limiti che i singoli Stati subiscono nella emanazione di norme interne difformi dal regolamento di armonizzazione di riferimento.

Quanto agli scopi perseguiti dal legislatore europeo, le finalità enunciate nelle premesse del Regolamento (Considerando 1 e 3) appaiono parzialmente coincidenti con quelle espresse dal legislatore nazionale principalmente in merito alle necessità di prevenire le frodi, proteggere il consumatore ed assicurare il suo diritto alla informazione. Tuttavia, nell’attuale sistema legislativo, tali tutele e diritti non possono variare a seconda del Paese dell’Unione in cui si trovano chi produce e chi consuma. L’obiettivo di creare un’area comune di eguale livello di sicurezza in ambito alimentare attraverso le norme armonizzate sarebbe, altrimenti, facilmente eluso se ogni Stato potesse introdurre regole autonome integrative o modificative. Non è un caso che l’articolo 38 del Regolamento stabilisca un generale divieto per gli Stati membri di mantenere od adottare legislazioni nazionali, non su specifici aspetti ma, sulle intere materie oggetto di armonizzazione.

Uniche eccezioni al principio ora richiamato si ricavano dagli articoli 39 e 45 (ma solo “per tipi o categorie specifiche di alimenti”) nonché, più in generale, dalla procedura di deroga alle misure di armonizzazione sancita dall’articolo 114 del Tratto di Funzionamento dell’Unione Europea. Una terza via è stata ipotizzata dalle autorità governative italiane che, richiamando gli obblighi informativi verso la Commissione nella introduzione di “regole tecniche” (Direttiva 2015/1535), avevano notificato alla Commissione il progetto di D.Lgs. 145/17. Di diverso avviso è però stata la Commissione che, nel negare sostanzialmente la invocata natura di “regola tecnica” circa la prospettata obbligatorietà di inserimento in etichetta del luogo di ultima lavorazione, ne ha evidenziato, al contrario, la assoluta incompatibilità con l’articolo 9 del Regolamento in un parere circostanziato.

Il Governo italiano ha quindi ritirato la notifica ex Dir. 2015/1535, così come ne ha ritirata un’altra ai sensi degli articoli 39 e 45 del Regolamento ed, infine, si è visto dichiarare irricevibile anche la terza ex art. 114, paragrafo 4, TFUE, quest’ultima in quanto esperibile soltanto prima della introduzione di una misura europea di armonizzazione e non dopo la sua entrata in vigore. A ragione, invece, non è stata sinora tentata la notifica ex art. 114, paragrafo 5, TFUE in base al quale uno Stato membro può introdurre disposizioni integrative rispetto ad una misura di armonizzazione già vigente.

Appare, invece, che l’iter iniziato con la seconda notifica ex articoli 39 e 45 del Regolamento fosse la più corretta benché, comunque, inammissibile se riferita a tutto il genere alimentare e non a singoli tipi o categorie di prodotti. Si dovrebbe quindi immaginare, nel meritevole tentativo di reintrodurre l’obbligatorietà di informazione sul luogo di produzione, un rinnovato, attento ed analitico, percorso legislativo interno che inserisca l’auspicata prescrizione in più progetti di legge distinti per specifici “tipi” o “categorie” di alimenti affinché la notifica alla Commissione ex art. 45, ben motivata e circostanziata in ordine alle necessità di protezione del consumatore e prevenzione delle frodi, attivi la relativa procedura di valutazione. L’esito positivo non sarebbe, comunque, scontato perché, da un lato, è assai circoscritta dall’articolo 26 la facoltà per i legislatori nazionali di inserire l’obbligo di indicazione del “paese d’origine” o del “luogo di produzione” e perché, dall’altro, le notifiche in esame, proposte in passato anche da altri Stati, hanno raramente riscontrato il benestare della Commissione.

A dispetto di quanto anche di recente comunicato dal Ministero competente (Mipaaft) non sembra, pertanto, che il D.Lgs. 145/2017 sia divenuto mai pienamente coercibile. Se, infatti, gli operatori del settore alimentare sono tenuti ad osservare un regolamento UE di armonizzazione dove è lasciata la facoltà (a certe condizioni) di tenere alcuni comportamenti ed è stabilito il divieto di legiferare in materia, non si vede poi come una successiva legge interna possa obbligarli a svolgere quelle medesima attività, prima soltanto volontaria.

Le conseguenze di tali conclusioni sono assai rilevanti sotto molteplici profili. A parte le misure sanzionatorie elevabili dagli organi UE a carico dell’Italia per l’introduzione od il mantenimento di norme interne incompatibili con il diritto unitario (peraltro, già ipotizzate nel “parere dettagliato”), è lecito domandarsi se possa eventualmente insorgere un diritto delle imprese di Marca, Private Label o GDO italiane a vedersi indennizzate dei costi sostenuti per l’aggiornamento delle etichette dei prodotti alimentari a causa dell’entrata in vigore di un atto legislativo inefficace. Sotto altro profilo, non sarebbe la prima volta che procedure sanzionatorie avviate verso cittadini europei, ritenuti colpevoli di violazione di norme interne da organi inquirenti o ispettivi nazionali, siano poi giudicate illegittime sulla base della corretta interpretazione delle superiori norme europee. Più arduo è configurare, e comunque l’indagine non può essere oggetto della presente riflessione, una responsabilità verso consumatori o operatori anche stranieri a carico di Stati membri che, nell’imporre ai soli propri imprenditori obblighi informativi aggiuntivi, abbiano di fatto contribuito ad alterare il gioco della concorrenza nel mercato comune.

In conclusione, allo stato, non sembra potersi percorrere altra strada se non quella di abrogare il D.Lgs. 145/17 al fine di evitare l’insorgere dei rischi ora paventati. Solo qualora si ritenesse di voler opportunamente reintrodurre l’obbligo di indicazione del luogo di produzione o confezionamento, il nuovo progetto di legge dovrebbe essere notificato alla Commissione ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento ma solo relativamente a “tipi o specifiche categorie di alimenti” per le esigenze ivi previste tra cui, principalmente, la protezione dei consumatori e la prevenzione delle frodi.

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